Ruffano, febbraio 2020

Ruffano, febbraio 2020

Lavorando attorno al principio centrale delle mie ricerche, quello della creazione di paesaggi vegetali, oggi ho avuto un’altra occasione di approfondimento. Un altro incontro con il luogo, con un oliveto, con uno scampolo di territorio e con la sua gentile proprietaria.

Mi è ritornato alla mente che il giardiniere non arreda, egli è piuttosto l’organizzatore del dialogo tra le piante e il luogo. Per lui non contano tanto i cataloghi delle piante.

Lo sapevo già che ci sono molte più piante e tante quante sono gli infiniti luoghi in cui le possiamo piantare. Sapevo anche che ogni pianta è una trasformista che dipende dai luoghi che trasforma.

Questi esperimenti li compio più con le gambe, andando e venendo, spostando e guardando, immaginando, finché non giunge il giardiniere, zappa alla mano, che mi chiede impaziente: posso piantare? Questo è tutto un disegnare sul campo e nella mente, più che sul supporto del software di disegno, che mi è servito per dirmi “progettista”.

Andando e venendo si addensano, attorno a punti e linee invisibili, masse vive variopinte che strutturano lo spazio (in un dialogo tra il mentale e il vegetale). Masse  che permarranno, e per quanto, nel tempo?

E pianta dopo pianta si è venuta formando l’idea che ormai ci entusiasmiamo di più dei progetti senza tanto appassionarci dei luoghi. E perciò capita pure che questo entusiasmo passi in fretta, giusto il tempo che il progetto di trasformi appunto in luogo, che nessuno poi guarderà più.

Mi pare che sia questa una condanna prometeica che non ci fa guardare mai davvero i luoghi. Forse ciò che permane di più è solo la presunzione di dire di averli trasformati in dei giardini.