Siamo nuovamente limitati negli spostamenti. Ma non è forse il limite, in qualche modo, a rendere comprensibile il mondo? In questa geografia limitata mi trovo a partire per esplorazioni di piccolo cabotaggio alla scoperta di isole di luoghi trascurati dagli sguardi. In queste condizioni aumenta la densità dello sguardo, che non vuole solo prendere, ma tenta solo di mettere le cose al loro posto, vale a dire di lasciarle lì come sono.
Certo è un esercizio difficile non separare, non astrarre, non giudicare, direi quasi impossibile. Ricordo che qualcuno ha detto che “l’intero è troppo”. L’intero non si può concepire e sembra negato allo spirito umano di questi tempi. Penso che è per questo che non riesco ad apprezzare davvero nulla, tanta è la mia furia prometeica di voler le cose diverse da come si presentano.
Sicuramente ci sarebbe molto, specie per un paesaggista, (e in questa terra!), da cambiare. Ma non si vede inizio da nessuna parte, resta una speranza sfinita, che non costa nulla, e l’illusione che quello che vorrei somigli a quello di altri.
Allora esplorando tra le nuove costruzione della periferia urbana, scorgo un fondo rimasto indietro nel tempo, quando si piantavano solo alberi da frutta. In questo campo tra le parentesi dei muri delle ville confinanti, scendo. Avanzo e per prima cosa avverto la morbidezza del terreno sotto i piedi che affondano, tra l’erba, quasi franassero, per interminabili centimetri, in una pasta organica e minerale soffice e vitale. Il rudere di una costruzione realmente rurale, avvolta da vegetazione varia, mi rimanda, per contrasto, al tempo in cui il proprietario curava quel campo.
Tra i vari fruttiferi scelgo di avvicinarmi al vecchio kaki tutto rosso nel fogliame tipico d’autunno. Attorno orbitano il giallo del melograno, l’arancio del sorbo, i gialli e i marrone del noce e del gelso nero. Nella tenue luce di questo pomeriggio d’autunno l’ albicocco della rinomata varietà “di Galatone” presenta un lenzuolo di foglie che rimandano toni lucidi di un giallo calmo.
Qui c’è tutto un nuovo ordine, avvenuto per sottrazione, perdita, deperimento e morte.
Il grande pino domestico atterrato, con l’enorme scafo della zolla ribaltata in verticale, divide il campo per un terzo. Il tronco orizzontale è per metà sommerso in un mosaico continuo di foglie di ortiche e di borragini, riluce di loriche separate a fasce squamose. Mi ci siedo vicino e malgrado i frastuoni del traffico non siano lontani, qui sosta pace e silenzio. I rumori sembrano assorbiti e dissipati nelle fibre di tante piante che hanno trovato nell’abbandono la loro più libera natura. Lo sento, questa calma è una invenzione del luogo. Non manca nulla al completamento del momento, che è tutto nell’apprezzamento del limite.