Lo spazio ci parla, ma come possiamo ascoltarlo davvero se le sue voci per noi sono quelle ovvie del fondale in cui ci muoviamo tutti giorni?
Intanto di voce ascolto solo quella dello scontento di chi crede che il tono del giardino debba essere solo quella di un primo tenore che si leva e domina la scena del teatro del paesaggio.
Perché mai il paesaggio del giardino dovrebbe dominare sul contesto?
Mi sembra che giardini migliori siano quelli che si armonizzano con il paesaggio circostante pur distinguendosi, ma con discrezione.
Di un giardino – come di un paesaggio – non vale tanto la classificazione botanica delle sue piante, vale il ritmo delle masse vegetali, valgono i vuoti e i pieni, le luci e le ombre, le sfumature inenumerabili e vaghe. Ma come fare a declinare tutto questo caos di possibilità che ci offre, ora per ora nel continuo mutare delle stagioni? Il cosmos che vorremmo estrarre dal caos non è forse solo un’altra forma di caos. Ci si può solo fare parte partecipativa di un movimento che ci tiene dentro.
Questa potrebbe essere una nuova definizione di armonia?
Allora estenuato dalla fiera delle dissimulazioni garbate con il cliente che vorrebbe perfezionare e correggere anche il cielo sopra il giardino: aggiungere colore, saltare le attese stagionali, cancellare il riposo vegetativo; non mi rimare che volgere lo sguardo oltre il recinto dove lo sguardo fugge attraverso le sbarre zincate della ringhiera.
Mi perdo nella parata riposante delle apparenze vegetali che nessuno ha concepito (almeno) in quel modo e sicuramente non nel modo in cui appaiono a me. Lì nessuno può migliorare nulla e per questo, forse, nessuno guarda.
Sarà questa una malattia che ci fa perdere il meglio dell’esistere?