Giungere al punto di liberare il giardino, di portarselo dentro, senza la materia, di tenersi solo il metodo ma, più che altro, come dispositivo di incantamento.
Usare di più l’intensità dello sguardo contro l’immediatezza della frenesia potatoria.
Godere puramente, senza aspettative, delle tessiture delle chiome. Intrattenere un rapporto “meno tecnico e più fortunato” (Italo Calvino) con lo spazio.
Forse un limite al godimento del giardino sta nella preoccupazione che viene dal possederlo.
Riportare a casa la sera bozzetti di paesaggi a raso terra, scritti così come l’erba vi cresce. Piccole prose di luce attorno ad una cornice di spazio, con l’unico vincolo a che compaia in scena, focalizzata, almeno una pianta. Una fissazione dell’indugiare a guardare, ancora una volta, l’apparentemente insignificante che ci circonda.
Siamo sommersi di parole senza sintassi, senza più racconto. Allo stesso modo una collezione di piante non sarà mai un giardino. Serve un modo per tenerle assieme secondo un’idea di paesaggio, quello del giardino.