Siamo nel pieno dell’inverno e mi ritrovo a girovagare nelle campagne salentine solo per il bisogno di cercare pace nello spazio aperto. Tutto si rivela vano, più che risanare lo spirito, qui avverto una depressione paesaggistica irredimibile. Credo sempre di più che quella paesaggistica, sia tra le depressioni quella più incurabile perché non dipende tanto da te stesso quanto da ciò che ti circonda. Ecco, la potrei definire una depressione site specific. Nei decenni precedenti la cura dei luoghi era una necessità di ordine produttivo di cui però nessuno può negare l’implicita volontà estetica. Paesaggi poveri e dignitosi, sopravviventi in quanto produttivi; poi arrivò la ricchezza irresponsabile, quasi mai derivante da quella stessa terra.
Avanzo con difficoltà tanto sono frazionati campi, tra muri e recinzioni, siepi, fabbricati; tutto pare ostile ad andare avanti oltre un certo punto. È tutto un abbaiare e un ringhiare di cani che fanno la ronda dietro le recinzioni. Qui dominano panorami per miopi, senza orizzonti.
Da dove deriva la necessità di costruire case se le trovo tutte chiuse? Si tratta evidentemente di seconde abitazioni. Mentre mi allontano, respinto e fiaccato dal dedalo di cemento e asfalto, penso alle abitudini urbane degli abitanti stagionali di queste contrade. Tra le architetture fantasiose, spiccano per incongruità quelle meno casuali, dove ci ha messo finanche la firma il designer di paese. I giardini che le contornano sono quasi sempre la variazione di pochi motivi ornamentali. Come se non si possa parlare di giardino se questo non contenesse obbligatoriamente, in ordine: una siepe “plastificata” di viburno lucido (Viburnum tinus “lucidum”), un verdeggiante “manto” di graminacee microterme (Festuca sp., Poa sp., Lolium sp.), un trittico di palma regina (Syagrus romanzoffiana), un paio di cica (Cycas revoluta) a incorniciare l’ingresso una pirotecnica buganville (Bougainvillea spectabilis). Un giardino è tale solo se rassicura di somigliare ad un vero giardino. Altro carattere essenziale è certamente quello di essere assolutamente diverso dal paesaggio in cui è calato. Certo, altrimenti che giardino mai sarebbe?
In un territorio come quello salentino dove ancora resistono vestigia della povera e dignitosa epoca rurale queste nuove costruzioni sanciscono un’idea di spazio privato con caratteri estetici conformi all’idea dominante del destino di queste campagne urbane.
Come sarebbe meglio se questi luoghi fossero già stati completamente trasformati. Quello con cui devo fare ancora i conti è una condizione di passaggio, che non termina di finire dove non c’è più il vecchio e non c’è ancora il nuovo.
Qui forse non si potrà mai scrivere una storia coerente di queste trasformazioni, qui si adatta meglio il concetto di bazar più che quello di paesaggio. Ma più di tutto ciò che mi inquieta è la natura di un popolo disabitante e irriconoscibile in queste trasformazioni senza inizio e senza fine.
Questa idea del bazar mi ha suscitato pensieri che facevo tempo fa sulla giardinizzazione dei territori come frammentazione di uno spirito paesaggistico. Nondimeno avverto la urgente necessità storica di riabilitare il giardino come forma estrema di contestazione alla pretesa di una sicura filologia paesaggistica locale.