Ogni forma richiama quella successiva, sullo sfondo quelle ultime della progressione; linee in chiaro scuro che si perdono assieme all’idea di immaginarvi qualcosa dietro. A certe distanze il verde delle piante non si nota più, rimane l’essenziale delle sagome, solo le sfumature cangianti nella gamma dell’azzurro. Ciò che rimane con l’avanzare della sera è un’atmosfericità in cui tutto sprofonda per lasciare il posto alla immaginazione di ciò che compare quando smetti di guardare. Sarà questo paesaggio inesorabile in cui invano tentiamo liste di oggetti in esso presenti? Una quercia arrotondata (che sia una roverella?) affianco ad una cascina che non palpita più del lavoro dei coloni. Altri tempi, altre economie… La lista annovera puntini mobili, di bovini; siepi che dividono le proprietà, filari arborei con ramificazioni sempre più sfumate; tralicci e piccole pale rotanti come in un diorama di un trenino elettrico.
A queste scale il paesaggio non è neppure più quello vegetale, qui entriamo nel geomorfologico e di quanto dell’impalpabile è rimandato dalla luce. Ogni idea di paesaggio ha una sua scala di spazio e di tempo, che sia un formicaio o una vallata. Possiamo provare a condividere le impressioni con coloro che ci affiancano in quel momento, senza avere mai la certezza che ci si comprenda. Ma di cosa, poi? Sarà a partire da questa incertezza comunicativa che si aprono vie di racconto, che forse sarebbe miglio chiamare, favole.
Mi sovviene inevitabile Wang Wei (702-761) poeta e pittore cinese, dotato del genio della poesia paesaggista, che non smise mai di cercare tra i paesaggi di questo mondo terreno, la via della verità e della bellezza.