Nell’ormai lontano 1990, quando da laureando in scienze agrarie, uscì “Ecosistemi”, per i Quaderni delle Scienze n. 53, corsi ad acquistarlo e, probabilmente dovetti per questo rinunciare ad una pizza con gli amici, ma a tutt’oggi non mi sono mai pentito di quella piccola, ma significativa, scelta giovanile, anzi è come se quel piccolo gesto avesse rappresentato uno spartiacque nella mia professione di agronomo.
Ricordo, in particolare l’articolo del prof. Giorgio Celli, compianto pioniere di una nuova agricoltura, dal titolo “l’ecologia del campo coltivato”, dove si ripercorreva brillantemente la storia “evolutiva” dell’agricoltura sotto il profilo ecologico e si illustravano quelli che erano i principi basilari della vita biologica di un agroecosistema, considerato come un “ecosistema particolare”, ma non per questo esonerato dalle leggi fondamentali dell’ecologia.
Partendo dalla considerazione fondamentale che “l’ecosistema naturale è complesso e l’agroecosistema è semplice”, si illustrava quanta semplificazione abbia subito il campo coltivato e quanti problemi ciò abbia comportato alle colture che, entrate nella perversa spirale della tossico-dipendenza, vedevano i raccolti sempre più dipendenti dalla stampella chimica, ormai creduta non solo necessaria ma addirittura indispensabile.
Ma allora, da agronomo salentino, come sopportare oltre tutto questa grande confusione mediatica sulla drammatica questione “Xylella”? E, in riferimento alle ultime imposizioni fitosanitarie, mi chiedo come si possa arrivare a ritenere la fitopatologia una disciplina del tutto indipendente dall’ecologia.
Contro ogni buon senso, il decreto del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, 13 febbraio 2018, il cosiddetto “Decreto Martina”, si dimostra assolutamente opinabile sia per la tardività delle misure fitosanitarie imposte, sia per la reale possibilità che queste, se attuate, possano dare i risultati sperati. Ed eventualmente a che costo?
Ciò che viene imposto mi fa venire in mente la terapia adottata nella leucemia umana in cui si arriva a azzerare il sistema immunitario del paziente malato per poi ripristinarlo opportunamente, solo che nei territori questa logica non può trovare la benché minima possibilità di applicazione, data l’impossibilità di una radicale “chemioterapia”, sia per le intuibili ragioni ecosistemiche sia per le ripercussioni sanitarie, strettamente correlate con le prime.
Ci viene imposta la distruzione della copertura erbacea, malgrado l’ecologia ci insegna che la semplificazione floristica comporta effetto catastrofe sul sistema faunistico, che porta a sua volta al collasso dell’omeostasi ecologica, rendendo l’agroecosistema vulnerabilissimo: per cui, scelta la via dell’omeostasi mediante un tampone chimico, il gestore del campo coltivato dovrà proseguire su questa strada, aumentando il numero degli interventi e le dosi dei principi attivi. Gli insetticidi uccidono insieme alle specie dannose per le colture anche i loro stessi nemici naturali, favorendo la ripresa demografica dell’insetto infestante.
A chi tenta di argomentare che i fitofarmaci si usano già in abbondanza, obietterei che proprio nel Salento, data la sua composizione fondiaria di medie e piccole proprietà, in gran parte anche in abbandono colturale, non si adottano sistemi intensivi tali da configurare anche lontanamente un paragone con ciò che accade in altre aree d’Italia come nei meleti del trentino e nei vigneti del Veneto. Di controai trattamenti chimici mirati alle singole avversità attualmente adottati, ciò che questo decreto ci impone è un indiscriminato trattamento chimico su tutto il territorio. Circa poi la selettività, la ecotossicità e la salute pubblica, non abbiamo dati reali che possano davvero rassicurare le popolazioni.
Tutti vorremmo salvare il paesaggio rurale storico dell’oliveto salentino, tutti siamo pertanto vittime di una patologia vegetale introdotta, partita da lontano. Attribuirci responsabilità, che sono evidentemente di altri, al punto di arrivare addirittura a penalizzarci sotto il profilo della incolumità sanitaria mi sembra oltremodo ingiusto, e a tale ingiustizia è lecito e necessario opporsi con tutti mezzi della ragione.
Se è vero che una sempre più risicata percentuale della popolazione si dedica all’agricoltura, è vero altrettanto che si vedono ancora meno agronomi nei campi, per la maggior parte ormai completamente dedicati alle faccende burocratiche, per l’espletamento delle pratiche per acquisire, i pur utili, finanziamenti, senza i quali pare che oggi non si possa neppure più coltivare un sedano!
Questo è un problema. Infatti, se è vero che la natura aborre il vuoto è altrettanto vero che lo spazio professionale degli agronomi, ritenuto inutile, ha finito col soccombere alla competizione di un fiorente mercato dei kit colturali fatto da rassicuranti, più che davvero efficaci, prodotti fitosanitari corrisposti a calendario.
Quel giovane di quasi trent’anni fa credeva che le cose in agricoltura potessero migliorare. Qualcuno gli aveva fortunatamente spiegato che ciò era possibile e come agronomo sono rimasto fedele a quell’idea, nel segno della buona scienza agronomica che non può essere disgiunta dalle grandi tradizioni morali che hanno fatto progredire il nostro paese. Non è che il cinismo odierno sia anche figlio della carenza di veri maestri come lo è stato Giorgio Celli? Il professore così concludeva l’articolo menzionato all’inizio:
“La filosofia che deve ispirarci è il contrario di quella brutale da uomo di Neanderthal, che ha governato le nostre azioni fino ad oggi: noi siamo parte di un organismo, l’ecosistema, e di un superorganismo, la biosfera. Dobbiamo conciliare le esigenze della natura e della cultura, della produzione e della conservazione, dell’ecologia e dell’economia. Non possiamo sperare di vivere da soli senza alberi e farfalle, è necessario lavorare non per la nostra egemonia, ma per la nostra possibile coesistenza”.
È più urgente che mai ritrovare una migliore visione dell’azienda agraria e al contempo un cambio di paradigma produttivo.
Domina ancora la “concezione economica“, dell’attività agricola considerata come una qualunque impresa industriale o commerciale, dove la produzione è ridotta alla scelta di mezzi di produzione distinti e disgiunti, acquistati sul mercato (materie prime, concimi, lavoro. macchinari), che vengono combinanti solo in funzione diretta del raggiungimento del massimo profitto.
Questa concezione economica è quella che trae origine dall’applicazione, anche all’attività agricola, dell’epistemologia meccanicistica e dell’etica utilitaristica, i due cardini dell’economia neoclassica, il filone dominante ormai da quasi un secolo e mezzo all’interno del pensiero economico.
Per “concezione biologica” invece qui intendiamo la visione dell’azienda agraria come un “corpo” radicato nel terreno geologico fondamentale, che si auto-mantiene e si sviluppa grazie al flusso di radiazione solare, agli scambi di gas dell’atmosfera, al flusso delle acque, ai minerali del terreno fondamentale, e alle circolazioni interne di materia organica e minerale tra i vari “organi” che compongono l’azienda (terreno fertile, coltivazioni, stalla, concimaia).
Tra i vari organismi viventi che compongono questa entità biologica unitaria (microrganismi del suolo, piante cerealicole, piante foraggere leguminose, erbivori) sussistono delle “simbiosi”, ovvero delle interazioni biologiche mutuamente benefiche, che, se ben governate dall’uomo agricoltore, permettono la “perennazione” nel tempo dell’azienda agricola e la produzione di merci agricole e zootecniche per il mercato.
Non si può al contempo che essere perfettamente consapevoli di come l’invenzione dei fertilizzanti di sintesi e delle macchine termiche agricole abbia permesso la diffusione di una “agricoltura dei grandi successi immediati”, che ha radicato l’idea di poter superare con i mezzi tecnici artificiali (ritenuti liberi e illimitati) i limiti biologici dell’azienda agraria, e la convinzione che solo il passaggio dalla agricoltura contadina all’agricoltura industriale possa liberare la produzione agricola verso livelli quantitativi sempre più alti.
Le scienze agrarie, hanno così finito per accettare la concezione economica dell’azienda agraria, smembrando il loro oggetto di studio in parti da studiare e da gestire separatamente, l’una dall’altra, con l’unica finalità di aumentare la loro economia diretta e immediata in relazione all’obiettivo ultimo del profitto.
In tal modo “le scienze agrarie, pur rappresentando una biologia applicata, hanno rinunciato allo sviluppo di una “propria” visione dell’azienda agraria che, per essere sostenibile, non può che essere quella biologica, dove persistono quelle interazioni simbiotiche, mutuamente benefiche, gratuite e quindi realmente economiche, tra le parti”.
Da questa che è la “grave lacuna nelle scienze agrarie” si manifesta l’esigenza di “una necessaria revisione delle direttive agronomiche verso una interpretazione più biologica del miglioramento della produzione”.
Con la concezione “fisiologica” si vuole adottare una nuova disciplina sintetica che, facendo tesoro delle conoscenze scientifiche acquisite dalle varie discipline specialistiche, si occupa delle interrelazioni simbiotiche esistenti nell’azienda agraria, intesa come oggetto unitario di studio, con l’obiettivo di migliorarla e se del caso risanare le diverse situazioni “patologiche“.
Queste note sorgono dalle idee illuminanti del grande agronomo modenese Alfonzo Draghetti i cui precetti sono racchiusi in quel libro-scrigno: Draghetti A. (1948) Principi di Fisiologia dell’Azienda Agraria, Istituto Editoriale Agricolo.
Indurre, preservare, accrescere la fertilità del suolo è l’imperativo categorico primario: per attuarlo non si può prescindere da un sistema colturale che abbia il suo asse portante nella permanenza della copertura vegetale, che esalta al massimo la fertilità integrale del suolo.
Il coltivatore agricolo capace, non deve cercare solo la produttività e il profitto ad ogni costo, ma essere l’artefice e il custode della fertilità del terreno, diventare insomma quello che un altro grande agronomo Giovanni Haussmann, chiamava l’“agricoltore simbionte”, ossia in simbiosi intelligente ed amorevole con ogni organismo vivente che gli sta intorno, suolo, piante, animali.
È triste vedere come nella realtà attuale non poche aziende agricole, ancora si presentano come forme retrograde di organizzazioni di sfruttamento delle risorse naturali, purtroppo non più abbondanti come un tempo e destinate ad esaurirsi, fino al limite dell’abbandono e della desertificazione delle campagne.
La maggior parte delle aziende è invece, più propriamente, agroindustriale, configurabile come organizzazione di trasformazione delle lavorazioni meccaniche e dei concimi di sintesi che trascurano, più o meno, totalmente le risorse endogene potenziali del terreno, le quali, non solo, rimangono in parte o in tutto inutilizzate, ma perdono la funzionalità di organo rigenerante della fertilità.
Rispetto a questi due attuali sistemi di coltivazione – di sfruttamento e di sottoutilizzazione – una terza via attende ancora la sua piena realizzazione, con l’avvio di un’azienda intesa come organismo biologicamente attivo e capace di perennare e massimizzare la capacità simbiotica e vitale di rigenerare nel tempo la propria fertilità.
Urge richiamare l’attenzione ad una rinnovata presa di coscienza del modo di produrre contemporaneo che per altro coincide con la principale problematica ambientale dei nostri tempi, quella dei cambiamenti climatici, alla quale l’agricoltore moderno può, e deve, dare urgenti risposte.