Al rientro dalle scorribande di frutti estivi, curiosa espressione usata di mio padre per indicare la raccolta dei frutti lungo il casuale percorso di una passeggiata in campagna, mi concedo un ultimo scatto di botanica estemporanea. Intelaiature di tralicci dispersi sullo sfondo che incrociano figure vegetali di pampini di una vigna dismessa e carciofi rinsecchiti, un pero, un noce, fruttiferi superstiti all’incoltura della pomona galatea.
Ricordo che uno zio mi parlava di una “zona” di famiglia di cui era incerto cosa farsene. Il risultato di decenni di incertezza e distrazione porta alla confusione dei panorami che vediamo intorno a noi. Bisognerebbe, provare a girare per le periferie rurali di uno dei comuni del Salento come si va a portare la famiglia in una gita domenicale.
La campagna salentina, considerata tutta trasformabile a totale piacimento è letteralmente un’immagine di disintegrazione. Ma ciò che più colpisce è la differenza tra la leziosità delle nuove residenze “di campagna” (asettiche come colture fuori suolo) e l’incuria dei campi senza natura e senza governo; improbabili allestimenti temporanei in attesa di altre migliori destinazioni urbanistiche.
Lì dove si coltiva, si capisce, da non pochi particolari, che si sta facendo guerra all’agroecosistema. La nostra incapacità di vedere, e quindi trattare il paesaggio è proporzionale alla differenza tra territorio curato e quello degradato. Le apparenze colgono, più di quanto si creda, la verità sistemica complessiva delle trasformazioni prodotte dalle genti che abitano un territorio.
È vero, la storia insegna che i luoghi mutano sempre. Ma è soprattutto il senso di una profonda assenza di immaginazione degli abitanti che crea vuoto e smarrimento, e non solo paesaggistico. Siamo disperatamente in cerca della fantasia antica di popoli nuovi. Soprattutto non abbiamo bisogno di omologarci a modelli esterofili che ci rimescolano e confondono maggiormente l’anima.
Pensare il paesaggio salentino, inteso come un continuum integrato e armonico di natura e cultura è oramai come ostinarsi a perseguire una causa persa, come un “hablarle al viento”.
Non ci rimane forse che consolarci con la parzialità di giardini ben riquadrati dalle mappe catastali. Qui tutto galleggia in un bazar con una sua imperscrutabile logica estetica interna, di forme, di colori. Manufatti, piante e idee da ogni sorta di provenienza. Un caos dell’incivilimento vivibile solo dai più distratti.
In attesa di una nuova ecologia del paesaggio (e della mente) dettata dal caso e – soprattutto – dalla necessità.