L’attività dell’artista negli ultimi anni si è avvicinata sempre di più a quella di un ecologo, cioè a colui che si occupa delle relazioni all’interno dell’ambiente. Se così è, allora la creazione per il paesaggista non consiste tanto nell’invenzione di nuovi contesti, ma nella scoperta di relazioni sconosciute esistenti nei luoghi stessi, a partire dai fenomeni che nutrono le percezioni. Ci rendiamo conto dunque che l’ecologia è arte nel suo significato più stretto e pragmatico poiché espande la nostra comprensione della realtà.
Recuperare capacità poietica, creativa, significa, per analogia, raffigurarsi il processo creativo della Natura contro quel “fabbricativismo”, tipico della mentalità positivista, atomistica e meccanicista: diceva, infatti, Plotino che la Natura non ha mani per formare mani.
È allora solo attraverso l’esame dei ritmi sottili della vita nel loro dettaglio che origina il gioco delle sensibilità che permette una sintonizzazione con le energie che permeano luogo.
Tronchi in decadimento, coarse woody debris, un concetto che non rende merito al ruolo ecologico fondamentale del legno morto svolge nell’ambiente.
Davanti all’indietreggiamento della vita vegetale da una parte, il giardiniere paziente innesca altra vita. Dell’oliveto secolare permarrà una lunga testimonianza che il nostro linguaggio non riesce pienamente a cogliere.
“La decomposizione non è che una rinnovata composizione delle comunità viventi. Quanto al marcire, non si tratta d’altro che di un trampolino per una nuova vita. Il legno morto è creatività effervescente, che si rigenera proprio mentre il proprio <sé> si dissolve all’interno della rete.” *
*D. G. Haskell, Il canto degli alberi, Einaudi 2018