Seguo il consiglio di Gianni Celati che per scrivere è necessario stancarsi così da limitare l’invadenza del proprio egocentrismo su ciò che descriviamo.
Così scrivo non appena rincasato da lunga camminata da centro di Galatone verso zona costiera, attraversando campagne a partire dalla, non sorvolabile, periferia. Sempre la stessa storia di innumerevoli edifici e recinzioni che chiudono perlopiù nulla. Qualche cane che abbaia e ringhia fa su e giù lungo il confine per demarcare il possedimento del suo padrone distante.
Allontanandosi arrivano le prime aperture sulla campagna libera. Lingue di territorio scansato dalla furia edificatoria dei galatonesi. Qui sembra che nulla possa esistere senza un controllo della posizione nello spazio. Ma poi al momento di viverle queste villeggiature sembrano non aver mantenuto la promessa; è inevitabile pensare alla sproporzione tra l’accuratezza nei particolari e la poca volontà di abitarci.
Più avanti ancora, alcune pajare, sorgono in una gariga incantata proprio come nei quadri naïf di un mio amico pittore, solo che queste sono scene disabitate.
Cespuglietti di timo arbustivo1 e santoreggia pugliese2 si susseguono su piccole dorsali rocciose di una cava abbandonata di calcarenite, dove sul fondo ondeggiano stipe delle fate3 come biondi capelli al vento. L’aria aromatica apre a un ottimismo momentaneo e immotivato, forse per il semplice fatto di distrarsi da tutti i problemi.
Lungo la via di incrociano solo persone in auto: tutto è chiuso e tutti si trasferiscono, niente e nessuno sembra contento di stare nel posto dov’è.
Giunto al capolinea della passeggiata cerco un punto focale per giustificare la traiettoria così convintamente percorsa. Aggirandomi nella gariga faccio la scoperta di rari cespugli di ruta4, passo la mano a coglierne l’effluvio acre e pungente che quasi soffoca.
L’incompletezza del mondo vive in questi luoghi come una benedizione. Basta camminare, respirare, annusare, andare, e da qualche parte si arriva.
Il mantello vegetale della collina rocciosa, come in una sorta di consapevole e raffinata desistenza botanica, è composto di barboncino mediterraneo5 e mirto6, in una singolare associazione vegetale, come esito della fissazione di un paesaggista ostinato ma con un gran senso del luogo. Qui si coglie la verità biologica dei luoghi e insieme il carattere di un ambiente paesaggista. Il sole calante verso l’orizzonte esalta il carnicino delle graminacee mentre spicca tra le rocce calcinate dai secoli, il verde brillante dei mirti.
1 Thymus capitatus
2 Satureja cuneifolia
3 Stipa austroitalica
4 Ruta graveolens
5 Hyparrhenia hirta
6 Myrtus communis