Primi giorni dell’anno nuovo, passeggio sui polimorfi tappeti vegetali costieri, intessuti dei prati alo-psammofili che sormontano la scogliera marittima.
Cosa si può scrivere di luoghi che non si conoscono ancora? Certo ci si può informare attraverso la documentazione e i mezzi di comunicazione; così facendo si crede di poter comprendere di più del luogo visitato. Si finisce con il saper tutto, ma senza sapere che è tutto di ciò che si sa. Ma rimane, anzi si amplifica, la distanza tra “il noto e il conosciuto”. Quanti di noi possono parlare dell’America Latina senza esserci mai stati? E poi, anche quando ci si è stati, ciò che rimane non è forse solo il noto, così che alla fine del conosciuto permane solo un’ombra dello spazio? Tutto rimanda all’idea che avevamo prima di partire, quella intelaiatura inossidabile che informa le idee e non ci lascia vedere, chiude i varchi a qualunque incertezza e precarietà del sentire.
Pur avendo tempo a disposizione rinuncio a costruire la mia gabbia mentale su cui stendere i panni di una visione ordinata dei luoghi. Penso di voler rinunciare alla completezza e piuttosto lasciar svolazzare qualche cencio, qua e là, che dovermi trovare a catalogare paesaggi secondo ordine di una trita tassonomia pseudo-enciclopedica.
Della Bolivia mi piacerebbe, per esempio, capirne di più delle vegetazioni. Di come le associazioni vegetali hanno coevoluto nel sistema di ecosistemi, popolazioni umane comprese, ma soprattutto la loro apparenza mi interessa, le scene che vorranno offrirsi davanti a me, con affezione, tra contrasti, sfumature e armonie di forme e di colori, pur sapendo che ecologicamente questi diorami dello sguardo possono rappresentare ben poco delle ragioni biologiche che sottendono.
Saprò perdermi nell’essenzialità ipnotica della ondeggiante puna*?
*Prateria tipica dell’altopiano a prevalenza della graminacea perenne paja brava (Panicum prionitis).