Guardo le ampie geometrie che si dispiegano nello spazio davanti, forme nette addolcite da strati e masse di vegetazione*, di pieni e di vuoti, governate dalla morfologia della terra e dall’attività degli uomini. Allo stesso tempo geometrie ecosistemiche con una intrinseca funzionalità tra le parti. Sotto, sotto, l’armonia non può che essere la sintesi di una efficiente circolazione di materia ed energia.
Un paesaggio dove nessuna parte sembra perderci, neppure gli agricoltori malgrado la sottrazione dell’utilità di terra coltivabile. Penso che nel bilancio tra la fatica di conquistare nuovo spazio e il relativo ricavo ottenibile, la volontà si assesta su un margine di convivenza ecosistemica.
Mi viene da pensare che la ragione orientata dal criterio di lungo termine è una saggezza spontaneamente ecologica. Un collage di tessere in cui l’estetica (madre dell’etica) non è in contraddizione con gli equilibri della vita.
L’incolto che avvolge il coltivo non è sintomo di rinuncia o rassegnazione, ma piuttosto un affidarsi ad altre progettualità. Un esempio locale di superamento dell’agrilogistica. Ce la possiamo fare ad entrare nell’ordine di idee che ci sono progetti di ricostruzione oltre l’umano. Liberare la nostra immaginazione verso un nuovo paesaggio fatto di partecipazioni, di somiglianze, di relazioni da tessere “con e non contro” le (termo)dinamiche del buon vivere insieme.
Convivere più che condividere. (ma nessuna pianificazione territoriale pare davvero capirlo…). Convivere assieme in una sola patria, l’unica che possiamo concepire: la terra abitabile.
*Pteridium aqulinum, Rubus ulmifolius e Arundo donax